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L’istituto della compensazione è disciplinata dall’art. 1241 del codice civile e rappresenta un modo di estinzione dell’obbligazione: “Quando due persone sono obbligate l'una verso l'altra, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti, secondo le norme degli articoli che seguono”.
Tale norma è armonizzata con l’art. 8 dello Statuto del contribuente al comma 1 afferma che: “L'obbligazione tributaria può essere estinta anche per compensazione”.
La compensazione è ammessa per la maggior parte dei tributi (erariali, regionali o comunali) ed anche per debiti di natura previdenziale od assicurativa, così come per i crediti che non emergono dalla dichiarazione ma da altro titolo, come ad esempio i crediti per le nuove assunzioni od i nuovi investimenti.
A far data dal 1ottobre 2014, per permettere all’Agenzia delle Entrate un maggior controllo sulle operazioni di compensazione, è stato introdotto l’obbligo per tutti i contribuenti di presentare modelli F24 elaborati a seguito di una compensazione totale (e, quindi, a saldo zero) esclusivamente tramite i canali telematici “Fisconline” od “Entratel”, mentre nel caso di modelli F24 con compensazione parziale (con saldo maggiore di zero) anche con servizi di internet banking, ma mai comunque tramite la presentazione di modelli cartacei agli sportelli bancari o postali.
L’art. 10 quater d.lgs. 74/2000 (così come modificato con il d.lgs. n. 158/2015) testualmente recita: “È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chi utilizza in compensazione - ai sensi dell’art. 17 del D.Lgs. n. 241/1997 che recita “i contribuenti eseguono versamenti unitari delle imposte, dei contributi dovuti all'INPS e delle altre somme a favore dello Stato, delle regioni e degli enti previdenziali, con eventuale compensazione dei crediti, dello stesso periodo, nei confronti dei medesimi soggetti, risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche presentate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto. […]”- crediti non spettanti, mentre è punito con la reclusione da 18 mesi a sei anni chi utilizza in compensazione crediti inesistenti, per un totale superiore a 50 mila euro per ogni periodo d’imposta”.
Il legislatore nel 2015 ha mantenuto la definizione dell’indebito, modificando esclusivamente la sanzione a seconda della diversa tipologia del credito utilizzato per la compensazione.
La scelta del legislatore di scindere la sanzione a seconda del credito utilizzato è dovuta ad un’attenzione preminente nei confronti dei comportamenti fraudolenti o simulatori.
A detta del legislatore, il credito inesistente discenderebbe sempre da una condotta fraudolenta del soggetto e per tale motivo la pena è notevolmente inasprita.
Soggetti attivi del reato possono essere tutti i contribuenti legittimati, ex art. 17 del d.l.gs. n. 241/1997, ad effettuare pagamenti d’imposta utilizzando in compensazione crediti di origine tributaria vantati nel confronto dell’erario.
Il reato di cui all’art. 10 quater si inserisce nel quadro dei delitti istantanei, e si consuma nel momento stesso in cui viene operata la compensazione, quindi al momento della presentazione del modello F24.
Per quel che riguarda l’elemento soggettivo del reato non è richiesto un dolo specifico ma è sufficiente il dolo generico ossia che il soggetto abbia la coscienza di aver effettuato un versamento inferiore al dovuto (vedasi Cass. penale, sez. III, 28 febbraio 2012, n. 7662).
Nell’ipotesi di illecita compensazione effettuata da una società, il soggetto attivo del delitto è identificato in via principale nella figura dell’amministratore, quale responsabile del rispetto degli oneri tributari.
Nel caso in esempio il legale rappresentante della società aveva omesso di versare ritenute IRPEF e contributi previdenziali per un ammontare superiore ad € 50.000,00 per due anni di imposta, utilizzando in compensazione crediti IVA non spettanti in quanto eccedenti la misura massima consentita dall’art. 34 comma 1 L. 388/00.
Nel 2013 il Tribunale di Genova è stato chiamato a giudicare sulla colpevolezza della società per il reato di indebita compensazione ex art. 10 quater d.lgs. 74/00 ante riforma.
L’accusa si basava sul testo dell’art. 10 quater del D.lgs. 74/00 prima della sua modifica (avvenuta con D.Lgs. n. 158/2015). L’articolo recitava: “È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chi utilizza in compensazione - ai sensi dell’art. 17 del D.Lgs. n. 241/1997 - crediti non spettanti od inesistenti per un totale superiore a 50 mila euro per ogni periodo d’imposta”, non operando la distinzione tra crediti non spettanti e crediti non esistenti.
Rientravano nella categoria dei crediti non spettanti quei crediti che, anche se esistenti, non erano esigibili.
La tesi difensiva, nel primo grado, chiedeva ai Giudici di valutare l’inciso della norma 10 quater in senso restrittivo, ossia considerando come “non spettanti” solo i crediti che esulano dal rapporto tributario fra contribuente ed Amministrazione, pena la violazione dell’art.25 Cost..
Il Tribunale decideva condannando la società ex art. 10 quater del D. lgs. 74/00, previa concessione della circostanza attenuante di cui all’art. 13 del d.lgs. 74/00, per aver commesso il reato di indebita compensazione ex art.10 quater d.lgs. 74/00.
La società condannata, a mezzo del proprio Avvocato di fiducia, è ricorsa “per saltum” in Cassazione (ex art. 569 c.c. è prevista la possibilità di ricorrere direttamente dal primo grado alla Cassazione).
Come unico motivo di doglianza si è dedotta “l’inosservanza nonché l’erronea applicazione della legge penale, art.10 quater d.lgs. 74/00” poiché, a detta della difesa, la circostanza rientrava semmai “nell’ipotesi di cui all’art. 13 comma 1 d.lgs. 472/97”(l’art. 13 riguarda il caso del ravvedimento operoso, con riferimento al primo comma agli omessi versamenti su tutti i tributi).
La questione sottoposta alla Corte consisteva nel verificare se nella nozione di “crediti non spettanti” ex art. 10 quater d.lgs. 74/00 rientrassero quelli utilizzati in compensazione che eccedessero i limiti consentiti dall’art. 34 comma 1 L. 388/00.
Il Collegio parte dal presupposto che il concetto risultante dalla sentenza impugnata è astrattamente corretta poiché il concetto di non spettanza include, dal punto di vista logico, “tutto ciò che non spetta”.
Tuttavia, la giurisprudenza di merito, in riferimento all’ipotesi di compensazione in eccedenza, non è uniformemente orientata nel senso della sanzionabilità della condotta (es. Commissione Tributaria Regionale del Lazio sez. 20, con decisione n.183/2009 ha escluso che l’ipotesi dell’omesso versamento conseguente a compensazione in eccesso sia dal punto di vista tributario censurabile).
Nelle more del processo, oltre ad essere intervenuta una modifica dell’art.10 quater d.lgs. 74/00 (precedentemente menzionata n.d.r.) che ha cercato di mettere in ordine una materia alquanto dubbiosa, è emersa una mancata valutazione da parte del Tribunale dell’elemento soggettivo.
Ovvero è emerso che i mancati versamenti fossero addebitali ad una mancata vigilanza dall’amministratore della società sull’operato del commercialista.
Secondo i Giudici della Corte il Tribunale non ha altresì valutato il versamento spontaneo dell’imposta dovuta in conseguenza del superamento del limite.
Alla luce di queste considerazioni la Corte non ha ritenuto configurabile per l’imputato il reato di cui all’art. 10 quater d.lgs. 74/00 e per tale motivo ha “imposto l’annullamento della sentenza rinviando gli atti alla Corte di Appello di Genova, che dovrà più approfonditamente valutare la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato a carico dell’imputato”.
La massima è così sintetizzabile: “L’utilizzo di crediti inesistenti oltre la soglia prevista per legge è reato esclusivamente se è presente il dolo da parte del contribuente.”
Cassazione penale, sez. III, 4 dicembre 2015, n. 48211.
Con tale sentenza la Corte ha provato ad elencare una serie di elementi necessari a configurare il reato di cui all’art. 10 quater d.lgs. 74/00, che, nonostante gli interventi legislativi nonché le pronunce giurisprudenziali, continua ad essere avvolto da numerose perplessità.
I Giudici hanno anzitutto cercato di delineare le distinzioni tra “crediti non spettanti” e “crediti non esistenti” basandosi anche sull’intervento legislativo intervenuto successivamente.
Altro intervento degno di nota è stata la definizione dell’elemento soggettivo per la configurazione del reato. La Corte con la propria sentenza ha imposto una stringente verifica circa la sussistenza del caso di specie. Il Tribunale di primo grado non ha valutato la buona fede della società che è soltanto incorsa in una mancata vigilanza sull’operato del commercialista a suo volta incorso in un errore contabile.
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