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L’art. 4 della Costituzione riconosce il diritto dovere al lavoro di ogni cittadino, che può svolgere un’attività secondo le proprie inclinazioni, concorrendo al progresso materiale e spirituale della società.
La portata ampia del diritto consente a chiunque abbia interesse di trovare un’occupazione, al riparo da qualunque tipologia di discriminazione che lede la dignità della persona umana.
In quest’ottica si inserisce la tutela del lavoratore diversamente abile, verso cui il legislatore ha avuto un occhio di riguardo stabilendo una disciplina di favore.
La principale normativa di riferimento è la legge n. 68/99, che individua nella proporzionalità tra minorazione e prestazione un principio fondamentale della tutela, da cui consegue che l’assegnazione delle mansioni debba avvenire in maniera compatibile con gli handicap del dipendente e l’obbligo per il datore di non richiedere un servizio non conforme alle residue capacità (art. 10 comma 2).
Nel caso di aggravamento delle condizioni di salute o disignificative variazioni dell'organizzazione del lavoro, il disabile può chiedere che venga accertata la compatibilità delle mansioni a lui affidate e allo stesso modo l’imprenditore può chiedere gli accertamenti necessari per verificare se, a causa di nuovi deficit, possa continuare ad essere utilizzato presso l'azienda.
In caso in cui il riscontro sia negativo il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a che l'incompatibilità persista, a meno che il contratto non debba essere risolto poiché, anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione aziendale, venga accertata la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all'interno dell'impresa (art. 10 comma 3).
Per quanto concerne l’assunzione l’art. 3 della legge citata prevede che la stessa debba avvenire mediante collocamento obbligatorio, nel limite delle quote di riserva. I datori di lavoro pubblici e privati sono infatti tenuti ad avere alle loro dipendenze lavoratori appartenenti alle categorie protette nella misura del sette per cento degli occupati se l’azienda ha più di 50 dipendenti; due lavoratori se gli occupati sono da 36 a 50; un lavoratore, se vi sono da 15 a 35 dipendenti.
L’azienda deve presentare agli uffici competenti la richiesta di assunzione entro 60 giorni dalla stessa e denunciare alla Direzione provinciale del lavoro entro il 31 gennaio di ogni anno il numero complessivo dei dipendenti tra cui quelli computabili nella quota di riserva, nonché i posti disponibili per i lavoratori aventi diritto all’assunzione.
I datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti a garantire la conservazione del posto di lavoro a coloro che abbiano acquisito una minorazione per infortunio sul lavoro o per eventuale malattia professionale.
In virtù del principio di parità di trattamento nei confronti di questi nuovi disabili non è consentito il licenziamento per giustificato motivo ogniqualvolta gli stessi possano essere adibiti ad altre mansioni equivalenti o inferiori, con conservazione del trattamento economico più favorevole.
Qualora non sia possibile la ricollocazione, viene in essere un riavviamento da parte degli uffici competenti presso altra azienda per lo svolgimento di attività per cui il lavoratore sia capace. A questo proposito occorre richiamare la direttiva 2000/78/Ce la quale prescrive all’art. 5 il rispetto del trattamento ragionevole nei confronti di chi sia affetto da handicap, che comporta nei confronti del datore l’obbligo di consentire un’appropriata occupazione al dipendente, tenendo conto allo stesso tempo dello sforzo economico eseguito dall’impresa che non deve essere eccessivo.
Sulla medesima ottica solidaristica, per i lavoratori inabili già al momento dell’assunzione, vengono applicate le disposizioni che regolano il licenziamento comune (ad esempio motivi disciplinari, eccessiva malattia) con l’aggiunta di alcune particolarità.
Esso può intervenire oltre che per mancanza di mansioni appropriate con la malattia, per mobilità, se la percentuale di disabili da occupare in seguito a riduzione dei dipendenti, scenda al di sotto della percentuale prevista dalla legge. L'articolo 10 l. 68/99 precisa che in tali ipotesi, ovvero nel licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo, esercitato nei confronti del lavoratore occupato obbligatoriamente, il recesso è annullabile qualora nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva.
Nonostante la normativa di riferimento consideri illegittimo il licenziamento dovuto a motivi di discriminazione, tra cui anche perminorazioni fisiche o psicologiche, nella pratica accade sovente che un soggetto invalido venga licenziato per il suo handicap e che pertanto la controversia coinvolga il proprio Avvocato del Lavoro.
Il datore di lavoro può decidere come organizzare il personale, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo e quindi prevedere quanti disabili assumere, nel rispetto della quota di riserva di cui alla legge. Qualora, però, in capo all’invalido peggiori la situazione di salute, occorre fare attenzione a che il mancato ricollocamento in una mansione più appropriata dipenda da una situazione oggettiva e non sia invece una falsa giustificazione dell'imprenditore, che cela la volontà di non tenere presso la sua azienda il lavoratore disabile.
Solo l’impossibilità di affidargli incarichi diversi rende legittimo il licenziamento tanto è vero che, se il disabile, in conseguenza delle limitazioni dettate dal medico curante risultata sempre meno utilizzabile fino al punto che non è più possibile il reimpiego, è diritto del datore risolvere il contratto, non potendo la sua tutela compromettere le esigenze di produttività aziendali.
Diverso è il caso di recesso dal rapporto di lavoro in prova, non sottoposto ai requisiti di forma e motivazione richiesti nelle altre ipotesi ma sottoponibile al sindacato giurisdizionale. Il lavoratore ha la possibilità di dimostrare che il recesso sia stato determinato da un motivo illecito o che lo svolgimento della prova abbia riguardato mansioni non adatte o, ancora, sia stato adottato il recesso nonostante il positivo superamento dell’esperimento e si sia ricorso alla prova semplicemente per aggirare il sistema delle assunzioni obbligatorie.
Ulteriore casistica riguarda gli obblighi del datore di lavoro di adottare misure idonee a garantire al lavoratore con disabilità la mobilità fisica all’interno della propria azienda.
La fattispecie si verifica quando il dipendente non sia in grado di raggiungere la postazione lavorativa per la presenza di barriere architettoniche che non consentano l’ingresso in ufficio (ad esempio non vi sono ascensori o pedane) ovvero all’interno dell’ufficio è difficoltoso raggiungere la scrivania perché vi sono sedie e altri oggetti che impediscono il passaggio in carrozzina. Ciò comporta una lesione della dignità del lavoratore disabile che, a causa della limitazione di movimento, avverte un senso di frustrazione, discriminato rispetto agli altri lavoratori.
La tutela del lavoratore disabile si applica nei confronti di coloro che in età lavorativa siano affetti da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali che comportino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45 per cento, accertata dalle competenti commissioni per il riconoscimento dell'invalidità civile.
Gli altri appartenenti alle categorie protette sono gli invalidi del lavoro con un grado di invalidità superiore al 33 per cento, accertata dall’INAIL, ovvero i non vedenti, sordomuti, invalidi di guerra, civili di guerra e per servizio. Nello specifico si intendono per non vedenti coloro che sono colpiti da cecità assoluta o hanno un residuo visivo non superiore ad un decimo ad entrambi gli occhi con eventuale correzione, mentre per sordomuti coloro che sono colpiti da sordità dalla nascita o prima dell'apprendimento della lingua parlata. Categorie specifiche sono inoltre i centralinisti telefonici non vedenti, i massaggiatori e massofisioterapisti non vedenti, i terapisti della riabilitazione non vedenti.
L’obbligo di assumere soggetti appartenenti alle categorie protette spetta a tutti i datori di lavoro pubblici e privati, con l’esclusione dei partiti, i sindacati, enti senza scopo di lucro, forze di polizia, della difesa, aziende che presentano richieste di intervento di cassa integrazione speciale o procedure di mobilità.
Il lavoratore che ritiene di essere vittima di una discriminazione (in questo caso per disabilità) o, in generale, di un comportamento scorretto da parte del datore di lavoro può rivolgersi ad un avvocato del lavoro e conseguentemente al Tribunale.
Trattandosi di diritto del lavoro l’atto che verrà depositato in Tribunale sarà un ricorso, diviso in due parti, l’una riguardante il fatto, l’altro il diritto.
Nella prima saranno inserite tutte le argomentazioni oggettive a sostegno della domanda quali quelle riguardanti il contratti firmato, la sua tipologia, la durata, la mansione svolta, paga prevista e ricevuta; della seconda faranno parte le motivazioni giuridiche a supporto della richiesta, come ad esempio l’art. 15 dello statuto dei lavoratori secondo cui è nullo qualsiasi patto od atto diretto a licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero, ovvero porre in essere atti diretti alla discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.
Se, invece non è stato concesso un congedo parentale sarà invocato il d.vo 151/2001 ovvero se è stato violato il diritto all’assistenza o a permessi retribuiti la legge da citare sarà la n. 104/92.
Sulla base delle argomentazioni riportate sono da correlare le domande al giudice, che costituiscono l’ultima parte dell’atto. È possibile chiedere un provvedimento di accertamento della nullità dell’atto, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione dei suoi effetti, la reintegra nel posto di lavoro o il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale subito.
Il giudice, qualora accolga il ricorso, oltre a provvedere sulla base della domanda può disporre l’adozione di un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, oltre alla pubblicazione della sentenza su un quotidiano di tiratura nazionale (D. Lgs. 216/2003, art. 4, commi 5 e 7).
La recente riforma Fornero 2012 ha specificato come conteggiare i lavoratori già occupati, ampliando di fatto la base di calcolo e le possibilità di assunzione di altri invalidi. Bisogna infatti includere nel computo tutti gli assunti con vincolo di subordinazione, i soci di cooperative di produzione e lavoro, i dirigenti, i contratti di inserimento, i lavoratori somministrati presso l’utilizzatore, i lavoratori assunti per attività all’estero, i lavoratori socialmente utili (LSU), i lavoratori a domicilio e gli apprendisti, i dipendenti con contratto a tempo determinato fino a 9 mesi.
Altre agevolazioni sono previste dalla l. 104/92 in materia di diritti, integrazione sociale e assistenza della persona handicappata. Secondo la normativa nei confronti degli invalidi devono essere garantiti corsi di formazione professionale che tengano conto delle diverse capacità ed esigenze dell’interessato, che viene inserito in classi comuni o in corsi specifici o in corsi prelavorativi e a cui è rilasciato un attestato di frequenza utile ai fini della graduatoria per il collocamento obbligatorio nel quadro economico-produttivo territoriale. Ulteriori iniziative riguardano la formazione e l’avviamento al lavoro in forme sperimentali, quali tirocini, contratti di formazione, iniziative territoriali di lavoro guidato, corsi prelavorativi.
L’integrazione lavorativa è attuata tramite l’iscrizione in un albo speciale tenuto da enti, istituzioni, cooperative sociali, di lavoro, di servizi, e dei centri di lavoro guidato, associazioni ed organizzazioni di volontariato che svolgono attività idonee a favorire l'inserimento di persone handicappate in idonei livelli di prestazioni, di qualificazione del personale e di efficienza operativa.
Se l’invalido è vincitore di concorso pubblico e la sua invalidità è superiore ai due terzi, ha diritto di scelta prioritaria tra le sedi disponibili nonché la precedenza in sede di trasferimento a domanda; altre agevolazioni riguardano i genitori di minore con handicap, i quali possono usufruire in alternativa al prolungamento fino a tre anni del periodo di astensione facoltativa, di due ore di permesso giornaliero retribuito fino al compimento del terzo anno di vita del bambino. Il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità (coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti), ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa. Egliha inoltre diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.
Ferma restando la verifica dei presupposti per l'accertamento della responsabilità disciplinare, il lavoratore decade dai diritti menzionati qualora il datore di lavoro o l'INPS accerti l'insussistenza o il venir meno delle condizioni richieste per la legittima fruizione dei medesimi diritti.
Il trattamento paritario nei confronti dei disabili sul luogo del lavoro è un tema tanto più caro alla legislazione nazionale e internazionale quanto più, di fatto, nella pratica non viene attuato.
La casistica è molteplice. Ad esempio una discriminazione pervenuta in ambito universitario o durante un corso di studi se la frequenza obbligatoria non tenga conto delle esigenze di cura dello studente, non venga utilizzato materiale didattico adeguato al tipo di disabilità o non sia permesso di accedere ad un esame perché contemporaneamente il disabile deve recarsi all’ospedale. La discriminazione nella fase di ricerca del lavoro si verifica quando mancano servizi di accompagnamento e di operatori qualificati ovvero perché si preferiscono candidati con patologie meno gravi o più stabili rispetto a chi risenta di malattie progressive o psichiche.
Sul posto di lavoro, ancora, può capitare che i premi di produttività vengano legati alla presenza in servizio, mettendo da parte così chi si sia assentato per usufruire dei permessi della l. 104/92 ovvero si sia vittima di mobbing.
La legge di riferimento in materia è la n. 67/2006, che rimanda al d.vo216/2003, in attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Il decreto stabilisce che la parità di trattamento è suscettibile di tutela giurisdizionale con specifico riferimento alle aree riguardanti: l’accesso all'occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione; l’occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento; l’accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali; l’affiliazione e attività nell'ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni (art. 3).
All’art. 2 si definisce la parità come l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta, consistenti la prima in un trattamento meno favorevolmente rispetto ad un altro soggetto in una situazione analoga; la seconda in una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri che di fatto mettono coloro che professano una determinata religione, le persone portatrici di handicap, di una particolare età o di un orientamento sessuale minoritario in una situazione di svantaggio rispetto ad altri colleghi.
Un caso recente ha visto al centro della vicenda un ragazzo di 34 anni, che, costretto alla dialisi per problemi renali quasi tutti i pomeriggi della settimana, non ha potuto partecipare al concorso per la Magistratura ordinaria, tenutosi per tre giorni consecutivi nel giugno 2014. Proprio la consecutività dei giorni ha indotto il giovane a depositare ricorso al Tar, per chiedere la sospensione della prova o uno spostamento delle date, poiché, a motivo della cura, non avrebbe potuto presentarsi allo scritto, con conseguente lesione di un diritto. Il Tar del Lazio ha accolto il ricorso, mentre il Consiglio di Stato ha deciso per la prosecuzione dell’esame, nell’interesse degli altre oltre 20 mila partecipanti e a discapito del disabile.
La vicenda, che ha scandalizzato abbastanza l’opinione di tutti i concorsisti e non solo, ha condotto verso la scelta di fissare le date dei concorsi futuri in giorni alterni, in modo da consentire a tutti, di presentarsi per la prova.
Il caso di seguito approfondito ci consente di fare chiarezza sul complesso tema del cambiamento della capacità lavorativa e disabilità durante il rapporto di lavoro.
L’aggravamento dell’infermità che ha da luogo al collocamento obbligatorio del lavoratore consente il licenziamento del medesimo solo quando, a giudizio del collegio medico provinciale di cui all’art. 20 della L. 482/1968, sia tale da portare o alla perdita totale della capacità lavorativa o ad una situazione di obiettivo pregiudizio alla salute o incolumità dei compagni di lavoro ovvero alla sicurezza degli impianti, e ciò anche in presenza di clausola contrattuale collettiva che preveda, quale ipotesi di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, la malattia che renda il lavoratore inidoneo allo svolgimento delle precedenti mansioni (Cassazione sentenza n. 15269 del 12 settembre 2012).
I fatti oggetto del caso in esame hanno trovato origine dal licenziamento di un soggetto disabile, a causa di un’assenza prolungata dovuta all’aggravamento delle condizioni di salute.
La tutela speciale posta nei confronti dei lavoratori con handicap consente loro di monitorare costantemente il problema medico, senza che ciò costituisca giustificato motivo del licenziamento.
Sono infatti previsti appositi permessi e congedi e l’intero sistema aziendale dovrebbe essere concepito in un’ottica produttiva che però tenga conto della sensibilità umana, consentendo a chiunque di realizzarsi tramite un’occupazione. Il diritto alla cura è inoltre un dovere del cittadino, a maggior ragione se già al momento della assunzione sia invalido, che può assentarsi in maniera giustificata dal lavoro, senza pericolo di ritorsioni, minacce di sospensione o di licenziamento. A ciò si aggiunga che se si verifica un aggravamento della infermità, l’assenteismo diventa una conseguenza naturale, non solo perché ci si reca in ospedale per una specifica visita medica, ma anche perché è possibile che in quella determinata giornata il disabile sia impossibilitato a raggiungere il posto di lavoro.
Ciò è quanto è accaduto nel caso di specie ove il lavoratore, già disabile e assunto sulla base della normativa del collocamento obbligatorio, a causa delle assenze prolungate, dovute ad un aggravio della propria salute, è stato ingiustamente licenziato dal proprio datore di lavoro.
Tra società e lavoratore, invero, vi erano stati dei precedenti contrasti che avevano condotto il disabile a richiedere al giudice, già in passato, la reintegra nel posto di lavoro. Quest’ultimo era infatti venuto meno per le numerose assenze ingiustificate ed era stato ritenuto legittimo in primo grado ma illegittimo in secondo grado perché comunicato oltre il termine stabilito dalla contrattazione collettiva. La società soccombente con lettera del 19-10-2006 aveva quindi comunicato all’invalido la corresponsione della retribuzione in esecuzione della sentenza della Corte di appello, riservandosi però sulla reintegra nel servizio all’esito delle visite mediche, eseguite dal 7- 11- 2006 in poi, presso il Servizio di Medicina legale del luogo.
Successivamente a questo step l’azienda comunicava all’invalido che in base al referto medico era risultata la sua inidoneità a riprendere l’occupazione, per cui il rapporto di lavoro, già ripristinato, era da intendere risolto con effetto dalla data di ricevimento della comunicazione. Il dipendente impugnava pertanto il licenziamento, ritenendolo illegittimo, quindi annullabile, sulla considerazione tra l’altro che l’accertamento medico non fosse intervenuto secondo quanto previsto dalla disciplina sugli invalidi.
La vicenda è stata dunque riportata in giudizio in quanto il datore di lavoro ha abusato dei propri poteri di organizzazione aziendale per discriminare il lavoratore a causa della sua disabilità.
Egli infatti, non solo non si è affidato alle competenti commissioni mediche ma ha risolto il contratto per assenze sul lavoro, nonostante esistesse il diritto del disabile di curarsi, ancor più se in seguito ad un peggioramento delle condizioni di salute. Il diritto di cure è sancito dall’art. 32 della costituzione e rappresenta un diritto inviolabile dell’uomo. Esso è al tempo stesso un dovere perché ogni cittadino deve avere rispetto verso gli altri e non contagiare o porre in pericolo chi lo circonda, ancor di più se si è in presenza di una condizione di disabilità o di una malattia che naturalmente va a degradare.
Il disabile può quindi assentarsi dal posto di lavoro, ma ciò non comporta in automatico il licenziamento. Questo è possibile solo e soltanto se l’aggravamento dell’infermità consiste in una perdita totale della capacità lavorativa o di una situazione di pericolo per la salute e l’incolumità degli altri lavoratori o per la sicurezza degli impianti, accertati dall’apposita commissione medica.
Il Giudice del lavoro del Tribunale Sezione Lavoro con sentenza accoglieva la domanda del lavoratore disabile, circa l’illegittimità del suo licenziamento operato dalla società presso cui era stato assunto in via obbligatoria. L’azienda ha proposto appello alla Corte d'Appello per ottenere la riforma della sentenza di primo grado. Risultando ancora soccombente ha esperito ricorso per Cassazione, cui ha resistito con controricorso il lavoratore.
La difesa della società ricorrente fondava la propria tesi sulla violazione dell’art. 10 l. 68/99 e dell’art. 5 dello Statuto dei lavoratori, sulla base della considerazione che non fossero da applicare al caso di specie, come invece insisteva controparte.
L’art. 10 l. 68/99 infatti prende inconsiderazione l’ipotesi dell’aggravamento delle condizioni di salute del disabile, che consente all’imprenditore di eseguire le verifiche per stabilire se la malattia, dapprima transitoria, divenga definitiva, con conseguente possibilità di recesso dal contratto.
Nella situazione specifica si è verificato, invece, che il datore di lavoro aveva sìrichiesto un ulteriore accertamento delle residue capacità di lavoro in capo al dipendente, ma sulla base di una prolungata assenza di costui dal servizio.
Tale circostanza rendeva l’accertamento medico non paragonabile ad una verifica dell’aggravamento in corso d’opera, bensì ad una valutazione ab origine, come se avvenisse per la prima volta e prima dell’assunzione, venendo meno l’applicazione dell’art. 10 comma 3 l. n.68.
La ricorrente ha aggiunto inoltre che la tesi accolta dalla Corte di merito, secondo la quale icontrolli sulla idoneità fisica del lavoratore e dunque sulla sua residua capacità di lavorosarebbero incardinati in via esclusiva in capo alla Commissione, si scontra con la lettera dellostesso art. 10 e con il fatto che quest’ultima legge non ha affatto abrogato il comma 3, della Legge n. 300 del 1970, articolo 5.
La Corte di cassazione con la sentenza in esame dichiara il motivo infondato, accogliendo la tesi difensiva del lavoratore disabile.
I giudici richiamano l’art. 10 della 68/99, che nel caso di aggravamento dellecondizioni di salute o di significative variazioni dell’organizzazione del lavoro, prescrive che il disabile può chiedere che venga accertata la compatibilità delle mansioni a lui affidate con il proprio stato. Le stesse verifiche possono essere chieste da parte del datore, per assicurarsi se, a causa di ulteriori minorazioni, possacontinuare ad utilizzare il lavoratore presso l’azienda.
Qualora quindi si riscontri il peggioramento o un’impossibilità circa la prosecuzione dell’attività lavorativa, ovvero tale incompatibilità sia accertata con riferimento alla variazione dell’organizzazione del lavoro, il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a chel’incompatibilità persista.
Gli accertamenti sono effettuati da una commissione medica designata e la richiesta di accertamento e il periodo necessario per il suo compimento non costituiscono causa di sospensione del rapporto di lavoro. Quest’ultimo, infine, viene in considerazione come extrema ratio, quando, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la predetta commissione accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda.
Nel sostenere la loro motivazione i giudicanti richiamano anche precedenti giurisprudenziali ormai consolidati e l’art. 10 della l. 482/68, secondo cui, il licenziamento dell’invalido assunto in base alla normativa sul collocamento obbligatorio segue la generale disciplina solo quando è motivato dalla comuni ipotesi di giusta causa e giustificato motivo, mentre, quando è determinato dall’aggravamento dell’infermità che ha dato luogo al collocamento obbligatorio, è legittimo solo in presenza di perdita totale della capacità lavorativa o di una situazione dipericolo per la salute e l’incolumità degli altri lavoratori o per la sicurezza degli impianti,accertati dall’apposita commissione medica.
Sulla base di tali considerazioni la Cassazione rigetta l’argomentazione della società ricorrente, circa l’equiparazione dell’ipotesi in esame all’accertamento iniziale. La verifica delle condizioni di salute, inoltre è categoricamente riservata alla competenza della appositacommissione, che valuta le condizioni stesse in funzione della maggior tutela riservata aidisabili, per i quali quindi, ai fini della risoluzione del rapporto, è necessaria la definitiva impossibilitàdi reinserimento all’interno dell’azienda anche attuando i possibili adattamentidell’organizzazione del lavoro.
Il problema dell’assunzione dei disabili ha un duplice risvolto in quanto concerne da un lato le esigenze della produzione industriale, dall’altro l’interesse personale dell’invalido a realizzarsi attraverso un lavoro, da cui deriva il sostentamento necessario per vivere. Si tratta in entrambi i casi di interessi tutelati dalla costituzione, l’uno all’art. 41, secondo cui l’iniziativa economica privata è libera, l’altro agli artt. 2, 3, 4, 36 che riconoscono la dignità della persona, l’uguaglianza e il diritto al lavoro.
Il datore di lavoro può organizzare i propri beni produttivi come meglio crede e secondo le esigenze del mercato; può anche decidere di cedere un ramo di azienda o trasferire la sede della stessa in un luogo che a lui convenga maggiormente. È chiaro, però, che possono sorgere problemi di compatibilità con i diritti dei disabili che, ad esempio, hanno maggiori garanzie a lavorare in una certa zona, perché magari vicino la propria abitazione o al medico. Oltre alle parti interessate in prima linea, nella materia vengono in considerazione terzi interessati, ossia gli utenti che, magari, si trovano a fare più fila alla posta perché l’addetto è un minorato o in un qualunque altro ufficio non si vedono rispondere adeguatamente alle proprie domande perché la persona con cui interloquiscono ha una ridotta capacità intellettiva.
Un argomento che acquista sempre più importanza all’interno dei tribunali è la malattia professionale, che si distingue dall’infortunio perché non consiste in una causa violenta che incide istantaneamente sulla salute del lavoratore, bensì si tratta di una patologia che il lavoratore contrae in occasione dello svolgimento dell'attività lavorativa e si sviluppa nel tempo per l’esposizione ad un fattore di rischio.
La legge tutela il verificarsi della malattia professionale in quanto il soggetto, assunto “sano”, una volta che si verifichi il problema ha comunque diritto al mantenimento del posto di lavoro, alla retribuzione e allo stesso tempo allo svolgimento di una mansione idonea alle proprie capacità. Inoltre, il verificarsi della malattia professionale (così come l’infortunio sul lavoro) genera un problema di responsabilità civile e penale, in quanto il soggetto leso subisce una minorazione e una modifica forzata nelle abitudini di vita dovuto, in molti casi, alle mancate precauzioni sul piano della sicurezza da parte del datore.
Il nostro ordinamento riconosce sul piano civilistico il risarcimento del danno dovuto alla violazione degli obblighi sulla sicurezza (art. 2087 c.c.) mentre dal punto di vista penalistico sono previsti alcuni reati specifici, come il disastro ambientale e altre norme, dedicate all’omissione dell’obbligo di vigilanza (art. 40 c.p.); l’INAIL inoltre, prevede un sistema assicurativo che tutela il lavoratore che contrae una malattia professionale distinguendo in malattie tabellate e non tabellate. Le prime rientrano in un elenco e quindi basta la semplice dimostrazione di esserestato adibito ad una mansione collegata a quella specifica malattia; le seconde, non sono inserite nell’elenco e per ottenere l’assicurazione il lavoratore deve provare che la malattiatrova comunque la sua causa da elementi presenti nell’ambiente in cui ha lavorato.
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